SAVINO MARTIRADONNA, PADRE E BANDIERA

Savino Martiradonna lo vedi arrivare, una persona comune ma per chi sa, un uomo che si porta con sé il peso della storia pallonara della Fidelis Andria e non solo. La storia di un periodo florido economicamente come altrettanto lo era il calcio che nasceva sotto forma di talento dalla strada e sull’asfalto, almeno dove c’era. La storia è fatta di tante piccole storie, che poi si intrecciano e si dividono come il fato vuole, come la palla che rotola sotto il controllo, spesso presunto, dei suoi protagonisti.

Quella palla rotolava sin da subito, ad Andria nella sua città, ma non nella Fidelis. Inizia dalla seconda categoria nell’Autodemolizione, una delle tre squadre andriesi all’epoca, che tutti ricordano come “U sfasc”. Squadra di speranze e lamiere che ha portato con sé una bella cucciolata di campioncini, tra cui Savino, sino al Barletta che all’epoca militava in Serie C2. Da lì parte la sua carriera che passa anche da Avigliano e Maglie, sino a Molfetta, Terlizzi ed Atletico Andria: nel mezzo 218 partite con la Fidelis, di Asseliti e dei Fuzio, e ben 30 goal con due promozioni. Un’era.

In questo percorso, la sua descrizione senza fronzoli ci parla di un ragazzo che, dove ha giocato ha lasciato un segno: ancora oggi lo ricordano a Maglie e ci rammenta come il Presidente Asseliti lo ha strappato alla squadra salentina: “A Maglie stavo bene, mi avevano riscattato dal Barletta, giocavo ed ero importante ma la chiamata del Presidente fu forte, chiudemmo l’affare in una stazione di servizio vicino Fasano, 17 milioni per il mio cartellino”. Era un tempo di uomini che chiudevano affari stringendosi la mano senza menate mainstream. Ma ci sono esperienze che lasciano il segno su di te, in prestito dal Barletta ad Avigliano dove vive una stagione ma soprattutto il terremoto negli anni ottanta che piegò il Sud, da Napoli a Potenza: “Una tragedia che ancora mi porto dietro nei ricordi”. Appunto un’era o forse due, perché Savino ha avuto le due famiglie che ancora oggi sono la storia del calcio andriese, quella degli Asseliti e dei Fuzio, “anche se si sono scambiati il testimone rappresentavano probabilmente già due ere diverse su come gestire l’azienda del pallonei, che però avevano in comune l’amore per la Fidelis Andria e la capacità di metterci su denaro. Il tutto con tre promozioni storiche”.

Spesso, nel pallone di oggi, si concedono i ruoli di bandiera a pochissimi calciatori o ancor peggio si abusa del suo significato: chi decide chi è una bandiera? Il numero di presenze, gli anni consecutivi con la stessa maglia, i titoli, i goal, il rifiuto di offerte da altre concorrenti ed essere nato nella città per cui giochi? Potrebbe andar tutto bene, poi ognuno se la costruisce la sua bandiera, ognuno si sente una bandiera a suo modo e in diversi modi. Nel calcio tricolore gli esempi sono facili: Riva, Scirea, Maldini, Zanetti, Totti sino a Franco Baresi. Proprio il sei del Milan mi fa pensare al nostro Savino, ma lo so perché: quella foto in quell’amichevole pre-mondiale giocata tra la Nazionale di Azeglio Vicini e la Fidelis. In quella foto una sorta di conferma da chi è nell’olimpo del calcio mondiale nei confronti della nostra bandiera biancoazzurra. Allora alla fine va bene tutto, i numeri e le prodezze possono bastare a far di un calciatore una bandiera, ma c’è dentro questa “definizione” qualcosa di trascendentale: nelle bandiere ti riconosci non ne le statistiche ma in quello che ti fa vivere, le certezze che ti da e che ti fanno pensare che lui è al tuo fianco senza tentennamenti. Vive nella memoria e si tramanda, chi lo ha visto voleva essere come lui nei pomeriggi alla “controra” a dribblare gli amichetti oppure chi vive di racconti tramandati a farsi spiegare appunto cos’è una bandiera. Cos’era Martiradonna.

Ecco, Savino Martiradonna è la nostra bandiera perché rappresenta il campo e le storie, come ci piace sempre sottolineare, perché è stato un fratello, uno zio, un nonno ed un padre per tutti. Soprattutto un padre per Michela, una ferita che sanguina e densa di dolore che solo un padre può almeno provare a descrivere o spiegare. Un calciatore che sul campo ha dato forza e gol. Un rompiballe in mezzo al campo, un centrocampista bravissimo nelle due fasi che amava attaccare l’area avversaria imbucandola e sulla sua trequarti rompere gli artifizi dei numeri dieci avversari.

Un calciatore nel cuore del centrocampo nella Fidelis e della Fidelis che non era mai banale soprattutto nei gol: sempre decisivi. Lui ce ne ricorda tre: “Ho segnato il primo goal della storia professionistica della Fidelis, alla prima giornata del campionato 84-85 a Sassuolo”, si perché in quegli anni i gironi seguivano la dorsale adriatica e ci si incamminava anche in lunghe trasferte. Poi sempre nella stessa stagione forse il più pesante di tutti con il goal salvezza in casa contro il Giulianova con la gara che termina 2-1: “Una giornata incredibile, alla fine della partita non solo estasi ma lacrime di gioia, tutti piangevano e ricordo che per un po’ di giorni non riuscivo ad uscire di casa per il tanto affetto della gente”. Giornata che ricorda quella della stagione 83-84, l’anno della promozione nei professionisti, al ritorno dalla trasferta di Manfredonia con la promozione in tasca da qualche giornata ottenuta in casa contro il Chieti: “I tifosi ci scortarono con un lungo corteo da Manfredonia sino ad Andria, anche qui emozioni incredibili. Avevamo fatto la storia con Bozzi in panchina, ed io ero dentro come protagonista, un figlio della città, un figlio della Fidelis. Anche l’allora Sindaco Piccolo ci dedicò una giornata celebrativa in Comune”. Siccome faceva certamente solo goal importanti, a volte ne faceva di spettacolari come quello contro la Civitanovese, da centrocampo, “Il portiere Ciaramitaro rinvia nella nostra metà campo, lui era alto, ed io di destro al volo la metto in porta da cinquanta metri”.

Questi aneddoti, che poi costruiscono le fredde statistiche, ne rivendicano la portata storica di un calciatore che ha segnato il passo, un’era calcistica che è genitrice di quello che dopo la Fidelis è diventata soprattutto negli anni novanta e duemila. Lui ha scollinato i campionati più duri e più impervi, calcando quei rettangoli di terra battuta e sansa conquistando le due storiche promozioni in C2 e in C1. Quest’ultima assieme ad altri personaggi biancoazzurri che abbiamo raccontato come Quaranta, Tomba e Argentieri. Si conclude la chiacchierata parlando del calcio di oggi, le differenze con il passato ma un messaggio ci arriva chiaro, “il calcio in fondo è semplice, il suo scopo è lo spettacolo, il divertimento”, preciso.

Oggi Savino lavora per la Fidelis, Dirigente accompagnatore addetto agli arbitri. Lo fa da professionista ma quando si parla con lui della Fidelis ne esce fuori tutto l’amore e la passione che quest’uomo prova per questi colori. Sempre dalla parte, dalla stessa parte del leone, che oggi cerca di risalire la china con la speranza di trovarsi dove si spera e dove si merita. La speranza di vivere la Fidelis di oggi con lo stesso obiettivo che Savino ha perseguito riuscendoci, ovvero il professionismo. Un uomo pieno di orgoglio, tra timidezza e semplicità ha lasciato il segno, su di noi e sulla nostra storia sia come padre che come bandiera.

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